L’intervento del Segretario Generale della Cisal, Francesco Cavallaro, sul tema welfare e pubblica amministrazione
“La contrattazione sindacale ha già sperimentato un’ampia diversificazione dell’offerta di welfare aziendale, dimostrando di saper cogliere appieno le potenzialità offerte dalle norme; soprattutto i contratti aziendali, infatti, prevedono forme di supporto per i lavoratori e per le loro famiglie in relazione a spese che investono il livello sociale. In tal senso la casistica è veramente variegata: rette di asilo nido o di scuola materna, libri scolastici, buoni spesa per attività sportive, polizze sanitarie, agevolazioni per mutui o prestiti; buoni benzina, buoni pasto, buoni per il trasporto, corsi culturali (lingue, informatici, formativi in genere); la cosa pure interessante è che tali benefici sono previsti non solo in chiave personale per il lavoratore, ma sono estesi a tutti i componenti del nucleo familiare e ai figli in particolare.
Tutte queste esperienze tuttavia, sono di fatto confinateall’ambito del lavoro privato, anzi per meglio dire ad alcuni settori dello stesso, visto che la loro diffusione non è assolutamente generalizzata. Nel pubblico impiego, dunque, il welfare è quasi completamente assente.
Dico quasi perché, nel pubblico impiego si sono affermate solo le forme basilari del welfare, dall’impatto economico molto limitato: buoni pasto, e previdenza complementare (ricordiamo infatti che rientra nella più ampia nozione di welfare anche quello cosi detto previdenziale, per effetto del quale vengono concesse agevolazioni fiscali per le quote di retribuzione destinate a forme di previdenza integrativa). Quest’ultima, oltretutto, incontra ancora molte riserve da parte dei dipendenti, determinate probabilmente anche da una modalità di gestione dei fondi pensione che come CISAL abbiamo sempre contestato. Non entrerà in queta sede nella polemica, ma mi limito a ricordare che i fondi pensione non possono diventare feudi di alcuni sindacati che li utilizzano spesso come strumenti di gestione del consenso dei lavoratori. A ben vedere non è perfettamente riferibile al welfare aziendale l’istituto della carta del docente; in questo caso infatti siamo in presenza di un bonus, elargito direttamente dalla legge, in favore di una specifica categoria di lavoratori; certamente tuttavia lafinalità ricalca in pieno quella tipica del welfare aziendale e per tale motivo è giusta citarla in questo contesto.
La carta del docente è l’esempio di un tipo di politica che dovrebbe essere rafforzata, dal momento che assicura un concreto sostegno alla funzione docente, favorendo l’aggiornamento professionale, in grado oltretutto di stimolare il mercato dei beni e servizi legati alla didattica e alla cultura.
Se tuttavia voglia soffermarci sulla questione welfare nel pubblico impiego, il problema rimane: al di fuori dei casi indicati (previdenza complementare con un impatto molto limitato, buoni pasto spesso limitati ad importi ormai risibili, e carta del docente che resta un unicum anch’esso dalla limitata portata economica) il welfare continua ad essere un fenomeno del tutto sconosciuto nel nostro pubblico impiego; si tratta di una lacuna grave che deve essere colmata quanto prima. E’ necessario pertanto abbattere le barriere che oggi impediscono l’affermazione del welfare nel pubblico impiego, che sono di natura normativa e contrattuale, per addivenire ad una completa equiparazione dei due settori (lavoro privato e lavoro pubblico) rispetto a questo fenomeno.

Questa disparità sfata il luogo comune secondo cui le condizioni di lavoro nel pubblico impiego sono sempre più favorevoli rispetto al mondo del privato, circostanza che si dimostra anche attraverso una comparazione della disciplina del salario di produttività. Voglio ricordare infatti che nel lavoro privato, in relazione al cosi detto welfare di produttività vige un sistema di tassazione agevolata, consistente nell’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle relative addizionali in misura pari al 5% suipremi di risultato erogati ai dipendenti del settore privato la cui corresponsione sia legata ad incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili sulla base dei criteri definiti. Tale aliquota vale fino a 3.000 euro e in relazione a lavoratori/lavoratrici con reddito fino a 80.000 euro annui; nell’ambito del confronto attivo con il Governo abbiamo chiesto, e ottenuto, che l’aliquota agevolata del 5% sia confermata anche per il 2025. Il tema, in realtà, presenta un legame anche con il welfare; infatti se un dipendente decide di devolvere il proprio salario di produttività alla previdenza integrativa la tassazione si abbatte completamente.
Si tratta di opzioni non previste i dipendenti pubblici; ovviamente nel pubblico impiego le norme sulla produttività dovrebbero essere riadattate alla specifica realtà della pubblica amministrazione, (non essendo possibile far riferimento agli indici di redditività aziendale tipici delle aziende private), ma in tal senso potrebbe essere utilizzata la contrattazione sindacale; servirebbe dunque una norma che preveda la defiscalizzazione dei salari di produttività, demandando tuttavia integralmente alla contrattazione sindacale la modalità di individuazione dei criteri di produttività che darebbe luogo all’agevolazione medesima.

Sono proposte che, come Cisal, abbiamo già formulato in occasione del confronto sulla legge di bilancio dello scorso anno, che abbiamo ribadito in sede di esame parlamentare del DEF e che andremo a riconfermare quando il Governo ci chiamerà per la legge di Bilancio 2025. E’ necessario che la legislazione nazionale italiana recepisca il problema evidenziato e cominci ad emanare norme che consentano una piena equiparazione del pubblico impiego all’impiego privato, riallineando anche le potestà dei contratti di lavoro del pubblico impiego che oggi non possono disciplinare gran parte degli istituti di welfare, non avendo al riguardo norme fiscali a sostegno. Parimenti, sarebbe opportuno che il diritto comunitario affrontasse il problema, emanando direttive che stabiliscano il divieto di normative che così fortemente discriminatorie verso ampie categorie di lavoratori, così come di fatto risulta essere quella italiana in materia di welfare nei confronti di lavoratrici e lavoratori del pubblico impiego”.